Di Dario Faccini
E’ la priorità della politica estera italiana.
E’ il secondo paese per ricchezza procapite dell’Africa, oltre 12.000$ a testa, circa un terzo rispetto all’Italia, in virtù delle maggiori riserve petrolifere del continente e di una popolazione di soli 6 milioni di abitanti, poco più della Campania, concentrata sulla costa.
E’ un paese confinante e sta sprofondando nel caos di una guerra tra islamici e militari. L’Italia sta a guardare, nonostante gli enormi interessi che ha nel paese e il rischio congiunto della crisi in Ucraina, con la possibilità di rimanere questo inverno a corto di gas.
E’ la Libia.
Fonte: Libya Body Count.
Sembra la fotocopia degli errori commessi in Iraq. Un dittatore violento che uccide i propri cittadini viene attaccato dai paesi occidentali. L’esercito nazionale si dissolve, insieme alla struttura istituzionale. Si tenta un percorso democratico, ma è debole, non adeguatamente supportato dai paesi occidentali e deve affrontare sia le nuove spinte religiose che la struttura tribale preesistente. L’assenza dello Stato permette l’ingresso di jihadisti armati. Si torna al conflitto. E il fronte islamista sembra avere la meglio.
In realtà la situazione in Libia è più articolata di così. Le prime elezioni del dopo-Gheddafi tenute nel 2012 hanno eletto un Congresso Nazionale Generale (CNG) a maggioranza laica, con il compito di scrivere la costituzione e formare un governo. Nel tempo però molti parlamentari hanno finito per spostarsi verso l’ala politica religiosa, sia moderata che più estrema. Nel frattempo, lentamente, è iniziata la ricostruzione di un esercito nazionale, anche con l’aiuto italiano. Il controllo del territorio è però rimasto in gran parte in mano ad una galassia di milizie, tribali e non, che si sono spartite le aree di influenza, tra cui le infrastrutture petrolifere. Tra esse vi è Ansar Al Sharia un gruppo di matrice fondamentalista attivo nell’est del paese e probabilmente responsabile dell’attacco a fine 2012 del consolato americano di Bengasi che ha portato alla morte di 4 statunitensi, tra cui l’ambasciatore.
Al maggio 2014 il generale Khalifa Haftar vara l’Operazione Dignità contro i gruppi islamisti armati di Bengasi, raccoglie supporto da buona parte del nascente esercito e spinge il Congresso Nazionale Generale ad indire le nuove elezioni che erano state rimandate ed a sciogliersi. A giugno avvengono le elezioni del Concilio dei Deputati, in cui i movimenti islamici risultano pesantemente sconfitti. In risposta i gruppi armati islamisti lanciano in luglio una controffensiva attaccando a Tripoli l’Aeroporto Internazionale, che conquisteranno dopo intensi scontri il 23 agosto. In pochi mesi la lotta miete centinaia di vittime, soprattutto a Tripoli e Bengasi, e volge in netto favore degli islamisti, tanto da far intervenire nel conflitto persino gli Emirati Arabi Uniti che mediante il supporto dell’Egitto hanno effettuato vari attacchi aerei in supporto all’esercito libico.
La situazione attuale vede quindi due schieramenti contrapposti:
– L’Operazione Dignità, guidata dal generale Khalifa Haftar, supportata dal neoeletto Concilio dei Deputati e formata dalla maggior parte dell’esercito con l’aiuto delle brigate della città di al-Zintan e dalla milizia tribale Warhsefana che occupa l’area sud-ovest di Tripoli;
– L’Operazione Alba, che, con la benedizione della fazione islamica dello sciolto Congresso Nazionale Generale, raccoglie una miriade di milizie islamiche e jihadiste sparse in tutta la Libia, che si pongono obbiettivi diversi: i più moderati, che fanno capo a diversi partiti islamici e alla Fratellanza Musulmana, vogliono instaurare una rigida Sharia (legge islamica), mentre i fondamentalisti, tra cui gruppi legati ad Al-Qaeda, contrastano apertamente ogni forma di democrazia. Tra moderati ed estremisti sono sorti negli ultimi giorni i primi segnali di contrasti a Bengasi.
Oltre alle conseguenze drammatiche del conflitto dal punto di vista umanitario, l’evoluzione della situazione in Libia comporta molti altri rischi, oltre che per il paese stesso, anche per quelli vicini e non.
A brevissimo termine attacchi ed interruzioni della produzione ed esportazione di gas e petrolio, fondamentali per permettere il funzionamento di ciò che resta dello stato libico e per ora toccate marginalmente dal conflitto. Questo scenario è particolarmente problematico per l’Italia, che attraverso il gasdotto marino Greenstream copre circa il 10% delle proprie importazioni di gas (dati 2012) grazie alla Libia. Nel caso di una contestuale interruzione prima della primavera delle forniture dalla Russia, da cui giungono il 30% delle importazioni, gli stoccaggi nazionali di gas difficilmente potrebbero coprire il fabbisogno interno.
A breve termine, la creazione di una zona di instabilità, anche solo in una parte della Libia, potrebbe garantire un rifugio sicuro in grado di attirare combattenti jihadisti da tutto il Mondo, creando le premesse per una radicazione territoriale analogamente a quanto è avvenuto in Siria. Per l’area Mediterranea in generale e soprattutto per l’Italia, vorrebbe dire avere una sorta di Stato Islamico alle porte di casa in grado di controllare infrastrutture di idrocarburi di un ordine di grandezza più redditizie di quelle in mano adesso all’Isis in Siria ed Iraq. Oltre a questa evoluzione, la crisi si potrebbe facilmente allargare ad altri stati del Nord Africa (Algeria, Tunisia, Mali, Niger, Mautritania, Egitto) che già devono confrontarsi con movimenti e attacchi di gruppi jihadisti alle loro frontiere. In aggiunta, il movimento jihadista ha già nel Sahel (comprende l’area a sud del Sahara tra il deserto e la savana e si estende dal Mar Rosso all’Atlantico) un’area sicura in cui organizzarsi e un corridoio privilegiato per muoversi nel Nord Africa.
A medio termine, il prolungarsi dell’instabilità in Libia arresterebbe lo sviluppo delle risorse di idrocarburi nel paese, che, insieme agli analoghi mancati investimenti in Iraq, impedirebbe a due principali paesi esportatori di petrolio di svolgere la funzione di copertura della domanda sul mercato petrolifero internazionale nei prossimi anni. Per l’Italia vorrebbe dire perdere sia degli importanti approvvigionamenti energetici, sia un importante partner commerciale, in una situazione economica già adesso precaria.
A tutto questo va aggiunto il rischio, per ora remoto ma che non può essere escluso, che nei prossimi mesi l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale si estenda ulteriormente e sfrutti la mancanza di un coordinamento sanitario di contenimento nelle zone di conflitto per propagarsi anche in Nord Africa.
intanto il figlio di un mio collega, ufficiale congedato dell’Aeronautica è stato richiamato con altri per colloqui. Non era mai successo prima!!
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