Il picco non esiste e le mele cadono verso l’alto

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La nostra mente è strana. Spesso si concentra sui particolari e dimentica il quadro complessivo. Questo è tanto più vero, quanto più si trattano gli aspetti fondamentali che permettono il funzionamento del nostro modello di sviluppo: prima tra tutti l’energia. Ecco allora un completo riassunto della situazione petrolifera e dell’attualità della teoria del picco del petrolio.

Di Luca Pardi

Nel 2014 e fino a pochi giorni fa, mi è capitato spesso di leggere critiche definitive alla cosiddetta teoria del Picco del Petrolio. Inizialmente queste critiche, spesso veri pezzi di polemica finalizzate a liquidare una volta per tutte il tema, sono nate dal successo dell’avventura dello shale. Successivamente hanno creduto di trovare conferma nell’improvviso crollo del prezzo del barile a partire dal settembre scorso. In una visione convenzionale tale crollo è stato visto esclusivamente come effetto dell’eccesso di offerta, mescolato con argomenti geopolitici di varia natura e profondità.

Pensiamo che debbano essere puntualizzati alcuni aspetti di questa questione senza nasconderci nessuno dei dettagli che la questione petrolifera solleva.

I fatti indiscutibili

1. Quella del Picco del Petrolio (Peak Oil) non è una teoria. O meglio, si tratta di una teoria nella misura in cui è una teoria quella secondo cui se una mela casca dall’albero cade in terra e non vola verso l’alto. Si tratta di un evento ineluttabile determinato dal fatto che il petrolio è una risorsa limitata. Vale la pena di ripeterlo. Come ha spiegato molte volte Colin Campbell il fatto che il petrolio sia presente nel sottosuolo in quantità limitate implica che vi sia stato un momento, nel passato, in cui abbiamo estratto il primo barile, ci sarà un momento nel futuro in cui estrarremo l’ultimo, e in qualche momento, nel mezzo, ci deve necessariamente un momento in cui estraiamo petrolio alla massima velocità. Questo momento individua, insieme alla quantità estratta, quello che chiamiamo picco del petrolio.Dunque il problema non è il se, ma il quando.

2. Fra 2005 e 2006 si è raggiunto il picco del petrolio proveniente dai giacimenti storici (quello che Steven Kopits chiama “legacy oil”) ad un valore estratto, secondo i dati IEA (International Energy Agency), di circa 70 milioni di barili al giorno (Mb/d). Questo è quello che è stato anche chiamato picco del petrolio convenzionale (si veda avanti).iea 2012

Figura 1: Produzione di petrolio nelle proiezioni IEA del 2012.

Il petrolio convenzionale o legacy oil è quello che proviene dai giacimenti che hanno alimentato il sistema economico lungo tutto il XX secolo. E’ il primo ad essere stato scoperto ed estratto per il semplice motivo che era anche il più facile da trovare e da estrarre. Il picco di questa categoria di petrolio è probabilmente l’evento più gravido di conseguenze di questo inizio secolo, e ha sancito anche la fine del petrolio a buon mercato per almeno un decennio, e probabilmente per sempre, facendoci entrare in un periodo di alta tensione sul versante di tutte le materie prime.

3. Uno dei problemi che rendono difficile la comprensione del mercato petrolifero è la nomenclatura. Fino a pochi anni fa la confusione era totale, ma oggi le cose sono più chiare. Il greggio (crude in Figura 1), il condensato (idrocarburi liquidi che provengono dai giacimenti di gas) e l’NGL (Natural Gas Liquid costituito da idrocarburi a basso peso molecolare: propano, butano e pentano) insieme alle fonti non convenzionali di petrolio (sabbie bituminose, oli pesanti, deep water, olio di scisto e artico) costituiscono l’insieme della produzione petrolifera (All oil). Quest’ultima insieme ai biofuel e ad altre categorie poco rilevanti come CTL (coal to liquid) e GTL (gas to liquid) che sono metodi di sintesi di liquidi combustibili a partire dal carbone e dal gas rispettivamente, danno luogo alla macrocategoria di tutti i liquidi combustibili (All liquids).iea 2088

Figura 2: Tutti i liqiudi combustibili secondo la classificazione EIA. Fonte: R.G.Mirrel and S.R.Sorrel

Secondo l’EIA (Energy Information Administration del governo USA) l’insieme di tutti i liquidi ammontava a settembre a oltre 91,1 milioni di barili al giorno (Mb/d), di cui 78,5 Mb/d di petrolio convenzionale e non convenzionale. I restanti 12,6 Mb/d sono costituiti dai 9,7 Mb/d di NGL (natural gas liquid) e 2,9 di altri liquidi combustibili fra i quali CTL, GTL e biocombustibili. Se si guardano le statistiche dell’IEA pubblicate nell’ultimo rapporto annuale (WEO2014) nel 2014 il contributo del legacy oil (categoria che complessivamente l’IEA nomina come “giacimenti attualmente in produzione”) ammonta a circa ai 67 Mb/d. Dunque ancora quasi 3/4 del totale dei liquidi combustibili, e l’85% del petrolio in senso stretto. Quando si parla di picco del petrolio si deve sapere di cosa si sta parlando. Parliamo di petrolio convenzionale, di tutto il petrolio o di tutti i liquidi combustibili?

4. L’industria petrolifera ha reagito al movimento del prezzo degli anni ’10 di questo secolo, con un intenso sforzo di rivitalizzazione del legacy oil , ma questo sforzo è costato 2500 miliardi di dollari a partire dal 2005 solo per sostenere la produzione di questa categoria pregiata di liquidi combustibili, il risultato è stato un mero rallentamento del declino che come abbiamo visto dai 70 Mb/d è sceso a circa 67 Mb/d. Vale la pena di confrontare questo sforzo con quello che dal 1998 al 2005, con una spesa di 1500 miliardi di dollari, aggiunse alla produzione 8,6 Mb/d. L’ulteriore sforzo per la produzione di petrolio di scisto attraverso la tecnica del fracking ha vaporizzato altre centinaia di miliardi di dollari.

5. Anche solo il petrolio convenzionale è già di per se una categoria con notevoli variazioni al suo interno. Vi sono molti diversi tipi di petrolio che vengono estratti nel mondo, diversi per composizione chimica, densità, fluidità e contenuto di impurezze. Un esempio di questa varietà è fornito dalla figura successiva, tratta dal rapporto annuale dell’ENI, in cui i petroli dei diversi bacini vengono identificati dal loro grado API, dal contenuto di Zolfo e dalla produzione data, quest’ultima, dalla dimensione delle bolle.

eni 2014

Figura 3: Qualità e produzione petrolifera nel mondo (ENI rapporto annuale 2014)

6. Fare la somma dei volumi estratti per ogni diversa categoria di petrolio è quindi già problematico per il greggio in senso stretto, ma sommare a questi i volumi di liquidi affatto diversi è un’operazione illecita dal punto di vista strettamente energetico. E’ noto ad esempio che l’NGL costituito da idrocarburi a basso peso molecolare: propano, butano e pentano ha un contenuto energetico a parità di volume che è il 70% di quello del petrolio in senso stretto. Una stima corretta dell’energia ricavata dalle diverse categorie potrebbe essere fatta correttamente attraverso una stima dell’EROEI (Energy Return On Energy Investment) e questo dovrebbe essere compito specifico delle agenzie governative come l’IEA. Ma non viene fatto e si preferisce sommare mele pere e limoni mostrando a cittadini e governanti curve di volumi prodotti in perenne crescita anche se l’energia ottenibile da quei volumi è diversa per le diverse categorie. Lo spiega bene Antonio Turiel in un post che attualizza al 2014 un ragionamento già fatto nel 2012. Le stime di Turiel portano a concludere che il 2015 sarà l’anno del picco dell’energia estratta da tutti i liquidi combustibili

7. La narrativa corrente che vorrebbe convincerci che il successo dell’industria petrolifera nel portare nuovi volumi di liquidi combustibili sul mercato ha risolto tutti i problemi di approvvigionamento mettendo in soffitta una volte per tutte la teoria del picco del petrolio, è smentita dagli eventi degli ultimi mesi. Il crollo del prezzo del petrolio è si dovuto ad un eccesso di offerta, in gran parte dovuto al tight oil americano, ma tale eccesso è determinato in modo prevalente dallo stato dell’economia mondiale con i maggiori consumatori, cioè i paesi di antica industrializzazione, che continuano a ridurre i consumi e i BRIC che rallentano. Inoltre, come evidenziato in diversi articoli (qui, qui, e qui) anche su questo blog (qui e qui), il crollo dei prezzi del barile ha un effetto deleterio sull’offerta, crea problemi di redditività a molti paesi produttori e alle compagnie petrolifere impegnate nei progetti più arditi del fracking che sono quelle che hanno mantenuto la produzione in salita negli ultimi anni.

8. Nel 2007, Frederick Robelius, un ricercatore dell’Università di Uppsala, pubblicò una tesi di dottorato in cui mostrava l’importanza dei grandi giacimenti petroliferi, i cosiddetti supergiganti, nella produzione globale. Secondo la nomenclatura corrente i supergiganti sono i giacimenti che alla fine del loro ciclo di vita avranno prodotto almeno 500 milioni di barili e che per qualche anno hanno prodotto almeno 100.000 barili al giorno. Tali giacimenti rappresentano l’1% del totale e producevano alla metà degli anni ’10, il 60% del petrolio convenzionale. I 20 maggiori supergiganti coprivano il 25% della produzione. L’inizio del declino della produzione cumulativa di questi grandi giacimenti ha coinciso con l’inizio del declino del petrolio convenzionale. Chi ha cercato ed estratto petrolio in tempi recenti, lo ha dovuto fare rivolgendosi ad accumuli più piccoli e più dispersi geograficamente. Il vantaggio tecnico, economico e logistico che si ha nello sfruttamento di grandi giacimenti non dovrebbe aver bisogno di spiegazioni.

Lo scenario di fronte a noi

Il picco del petrolio convenzionale è dietro di noi e tale rimane nonostante gli sforzi per rallentarne il declino. Di fatto i costi della rivitalizzazione del convenzionale mostrano che anche in questo sforzo si sono andate a sollecitare giacimenti i cui costi sono superiori a quelli del legacy oil. La ragione è una semplice regola dell’industria mineraria, prima si sfruttano i giacimenti più grandi, più concentrati e più accessibili. In gran parte si sono andate a sfruttare risorse che erano note, ma non erano mai state sfruttate perché i prezzi correnti fino a 15 anni fa le rendevano sub-economiche. Il petrol non convenzionale è costoso, tecnicamente impegnativo e, per vari motivi, legato al territorio statunitense. Ne abbiamo gia discusso in passato. Un analista finanziario ha affermato recentemente che i picchisti, con la loro teoria del picco, hanno sbagliato non anno, ma secolo. Egli basa questa sua affermazione liquidatoria su dati energetici che fanno, come si dice, d’ogni erba un fascio, sommando i discutibili successi dello shale, con l’avanzata delle rinnovabili, e il controverso rinascimento nucleare, con una spruzzatina di nuove mirabolanti promesse di nuove fonti. Tali affermazioni mostrano una sola cosa, poco rassicurante, l’incompetenza in campo energetico degli agenti finanziari o la loro cattiva fede o una combinazione delle due.

La teoria del picco del petrolio ha permesso di effettuare un’importante previsione e di riconoscere per tempo la necessità di un cambiamento epocale per la società umana.

  1. Alla fine del secolo scorso i peakoiler dicevano che il picco del convenzionale si sarebbe verificato nel 2005-6. Oggi questa previsione evidentemente azzeccata, viene sminuita in vari modi togliendo significato al concetto stesso di convenzionale o affermando che restringendo troppo la categoria del convenzionale si compie un operazione illecita. Primo perché si trascura la complessità della produzione petrolifera, secondo perché escludendo troppe categorie di liquidi combustibili si aumenta la probabilità di individuare il picco, ma tale picco risulterà un evento irrilevante. I fatti smentiscono queste critiche. Il picco del convenzionale, come definito sopra, ha coinciso con la fine del petrolio a buon mercato e con lo scatenarsi di una crisi economica globale dalla quale, al netto delle dichiarazioni ottimistiche e dei ritocchi ai bilanci nazionali, non siamo ancora usciti.
  2. I peakoiler, inoltre, hanno sempre affermato la necessità di conoscere e affrontare il problema per tempo. Il problema non è tanto indovinare l’anno in cui il picco si verificherà, cioè il momento in cui la produzione globale inizierà a declinare, ma iniziare per tempo, cioè con un anticipo di almeno due decenni le politiche adatte a mitigarne gli effetti. Va detto che poi, sulla natura di queste politiche, i peakoiler non concordano fra loro.

A partire dal decennio scorso una crescente mole di lavoro scientifico si è applicata al chiarimento del legame fra disponibilità di energia e crescita economica e ha iniziato a porre su solide basi una nuova disciplina che può essere definita economia bio-fisica. Citiamo qui in particolare il lavoro si R. Kümmel, quello di C. Hall e K. Klitgaard (si, lo sappiamo, Springer fa dei prezzi assurdi per i suoi libri, comunque ne potete trovare sintesi in alcune recensioni su WEB), e quello di Luigi Sertorio che oltre al pregio di essere scritto in italiano ha anche quello di essere conciso e didatticamente chiaro.

Nel 2012 il Fondo Monetario Internazionale aveva affermato nel suo World Economic Outlook che “se fosse provato che il contributo del petrolio all’output economico sia molto maggiore del suo costo, l’effetto potrebbe essere drammatico, e suggerirebbe la necessità di azioni politiche urgenti”. Uno si chiede cosa si debba aspettare per considerare provato il contributo fondamentale del petrolio e in generale dell’energia sull’economia e se il FMI e le altre istituzioni economiche abbiano un’idea di quali politiche siano necessarie.

Un ultimo punto. Il 2015 dovrebbe essere l’anno in cui l’insieme dei paesi di questo pianeta prende una decisione seria sulla questione climatica. Dati precedenti e premesse il pessimismo è d’obbligo. Ma supponiamo che tali decisioni serie siano veramente prese. In tal caso le mirabolanti dichiarazioni sulla consistenza delle riserve di combustibili fossili evaporerebbero nel tempo di porre la firma sul nuovo protocollo che andrebbe a sostituire quello di Kyoto. E’ infatti evidente che per contenere le emissioni di gas serra l’unico modo è ridurre sensibilmente e globalmente l’uso di petrolio, gas e carbone. Un tratto di penna cancellerebbe per via giuridica una quantità enorme di riserve dichiarate come attivi da parte delle aziende petrolifere facendo scoppiare una immensa bolla finanziaria. Questo è la ragione principale che ci rende pessimisti sulla possibilità che a Parigi si raggiunga un accordo serio sul clima. Un problema che Jeremy Leggett e la Carbon Track Initiative hanno denunciato con chiarezza.

La situazione è molto chiara, ma le classi dirigenti non sembrano aver la forza, l’intelligenza o la possibilità di cambiare rotta e i cittadini sembrano catturati nella narrativa della crescita infinita più di quanto sospettassimo solo un decennio fa. L’assalto ai saldi di questi giorni mostra solo che con meno soldi in tasca l’unica preoccupazione degli italiani, ad esempio, è quella di mantenere un livello di consumi immutato anche a costo di qualche ora di sonno. Come diceva Flaiano, e come mi ha ripetuto ieri sera un caro amico peakoiler, “la situazione è grave, ma non è seria”.

8 risposte a “Il picco non esiste e le mele cadono verso l’alto

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  2. Suggerisco semplicemente di capovolgere la fotografia, per rasentare la perfezione…………………
    Un saluto Marco Sclarandis

  3. Ma come? non viete accorti che la foto è al contrario?
    😉 😉 😉 😉
    Marco Sclarandis (il sorriso fa buon sangue)

  4. Da notare la sottigliezza mefistofelica di Ennio Flaiano:

    “Come diceva Flaiano, e come mi ha ripetuto ieri sera un caro amico peakoiler, “la situazione è grave, ma non (è) seria” “,
    basata sul fatto che gli aggettivi “grave” e “serio” non sono perfetti sinonimi.

    Aggiungerei: ormai sta diventando pure “tragicronica”

    Marco Sclarandis

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  6. “iniziare per tempo, cioè con un anticipo di almeno due decenni le politiche adatte a mitigarne gli effetti”. A me francamente due decenni sembrano anche pochino considerato l’immobilismo della società industriale di fronte a certi problemi.

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