C’è un fallimento intellettuale e strategico dei picchisti?

Perché nessuno ci ha avvisato?
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C’è chi dice cha abbiamo sbagliato tutto. Ma il punto della situazione racconta una storia diversa.

Di Luca Pardi

Articolo pubblicato sul sito di ASPO Italia.

Recentemente Michele Governatori ha scritto, all’interno di una discussione sul mio profilo facebook, una frase che merita l’attenzione di ASPO:

 […] pensare che il motivo di uscire dalle energie fossili è che stiano per finire è una delle ragioni principali di fallimento strategico e intellettuale degli ecologisti del picco, che di fatto hanno lanciato il messaggio opposto a quel che serviva: un messaggio ben più cinico e “economicista” del presunto “neoliberismo” che cercano di contrastare.
Dal petrolio invece stiamo uscendo (troppo lentamente) perché perfino alcune aziende petrolifere si aspettano che la politica e le persone reagiscano (probabilmente troppo tardi) al cambiamento climatico. La capacità di produzione di petrolio (carbone gas) dipende per ora e nel breve periodo dagli investimenti e dalla tecnologia e non dalla loro scarsità geologica. È una banalità [evidente]? Sì e mi sembra incredibile stare ancora a parlarne.

In questo post affronterò le affermazioni di questo amico, ex compagno radicale e giornalista di Radio Radicale di cui ho stima, e cercherò di approfondire l’argomento del Picco del Petrolio, facendo, se possibile il punto della situazione.

Il primo punto è un chiarimento: non esistono “ecologisti del picco”. Cioè non esiste un movimento politico che rifacendosi al picco propone una politica ecologista. Alcune delle conclusioni degli studiosi del picco del petrolio ( da ora in poi chiamiamoli picchisti) sono state utilizzate più o meno propriamente dai movimenti ecologisti. Men che mai si può attribuire a questi studiosi una posizione politica unitaria sul neoliberismo, qualsiasi cosa esso sia.

Il principale appunto che viene fatto da MG è che i picchisti hanno sottolineato il problema del caos energetico-economico che sarà indotto dal picco del petrolio (e del gas) e quindi hanno indicato nella futura scarsità il motivo principale per iniziare la transizione dalle fossili alle rinnovabili. Questo sarebbe un fallimento? Se lo è ricorda molto i cosiddetti fallimenti del Club di Roma che, dati per appurati già alla fine degli anni ’70, risultano ancora tutti da dimostrare in questi primi decenni del secolo XXI a 45 anni di distanza dalla pubblicazione dei Limiti dello Sviluppo.

Robert Hirsh, che non è un assolutamente ecologista, ha cercato di spiegare che per evitare gli effetti economici deleteri (nel sistema capitalistico vigente) del picco del petrolio, avremmo dovuto intervenire con almeno due decenni di anticipo. Il picco del petrolio convenzionale si è verificato nel decennio scorso, il picco di tutti i liquidi (categoria che include tutti i combustibili liquidi) è ancora atteso, ma inevitabilmente avverrà. La figura seguente fa chiarezza su cosa si intenda petrolio convenzionale (conventional oil) e non convenzionale.

Dice MG che quello che determina la produzione di qualsiasi risorsa nel breve periodo è la tecnologia. Certamente. E il ricorso alla tecnologia, cioè la sua evoluzione e progressiva complessificazione, dipende dalla scarsità. Legge economica (ed ecologica) per eccellenza, vecchia come l’economia che stabilisce che “prima si colgono i frutti bassi, poi si prende la scala (tecnologia avanzata) per cogliere quelli alti”. E la scala costa. E infatti il costo di estrazione cresce. Lo stesso barile (159 litri di greggio light sweet) che estratto dal deserto arabico costa alla Saudi Aramco 20 $, costa da tre a cinque volte tanto quando viene estratto da una piattaforma nel Golfo del Messico come mostra la figura che segue tratta da un numero monografico di una rivista scientifica sul futuro dell’offerta di petrolio.

Le categorie di petrolio che hanno compensato il declino del petrolio convenzionale sono in genere più costose. La tecnologia segue la scarsità, ma costa. E, purtroppo, sembra davvero incredibile dover stare ancora qui a parlarne.

Per coloro che hanno un minimo di infarinatura di fisica si potrebbe aggiungere che i costi crescenti hanno una causa fisica fondamentale: il declino dell’EROEI (ritorno energetico sull’energia investita). Man mano che i giacimenti meno impegnativi si esauriscono si deve attingere a giacimenti più complessi facendo ricorso a tecniche più sofisticate. Ma nel far questo si consuma più energia a parità di energia estratta e il rapporto fra ricavi energetici e costi energetici (cioè l’EROEI) diminuisce. A molti sembra banale, dopo che lo hanno capito. Personalmente non vedo l’ora che sia banale per tutti e per questo ne faccio un capitolo importante del mio corso universitario alla Scuola di Economia e Management dell’Università di Firenze. Per carbone, petrolio e gas i dati empirici mostrano un’evoluzione storica dell’EROEI che, con le irregolarità tipiche dei fenomeni naturali, supera un massimo intorno alla metà del secolo scorso e poi entra in declino (curve continue nella figura sottostante). Purtroppo per motivi che ho cercato di approfondire in un altro post, la società inizia a sentire il problema del declino dell’EROEI solo da un certo momento in poi a causa della forte non linearità della relazione che lega l’Energia Netta (data dalla sottrazione dei costi energetici dai ricavi energetici) dall’EROEI.

La stima delle variazioni storiche dell’EROEI delle fonti fossili è stata pubblicata recentemente.

(figura tratta da V. Court, F. Fizaine / Ecological Economics 138 (2017) 145–159)

Il declino dell’EROEI ha una sua logica che si capisce anche intuitivamente. Basta vedere l’evoluzione delle tecnologie estrattive per capire che il costo energetico ed economico di un pozzo petrolifero come quello scavato da Edwin Drake nel 1859 e di quello che tentava di realizzare, un secolo dopo, la BP nel Golfo del Messico dalla piattaforma Deep Water Horizon, devono essere molto differenti. Sulla complessificazione del processo estrattivo e sui costi di questa complessificazione hanno scritto in molti, ma il libro di Patzek e Tainter sul disastro della Deep Water Horizon è il più interessante e completo mettendo insieme le competenze tecniche di Patzek con quelle di Tainter sulla dinamica dei sistemi complessi.

I costi crescenti sono, nel breve periodo, nascosti dal ricorso al debito e, per i paesi produttori, dall’uso delle riserve valutarie accumulate negli anni felici del barile a 100$.

Felici? Non tanto. In effetti se si guarda l’andamento del prezzo del barile negli ultimi decenni si vede subito che gli unici anni felici, l’età dell’oro, è quella precedente alla famosa crisi del 1973, prezzi stabilmente bassi permettevano una crescita sostenuta in tutti i paesi consumatori e lasciavano ai produttori lauti guadagni. I guadagni dei produttori sono aumentati con l’aumento dei prezzi, ma, man mano che la produzione è passata dalle aziende private multinazionali alle compagnie nazionali (NIOC, Saudi Aramco, ecc) i paesi produttori hanno inevitabilmente aumentato la loro spesa pubblica ed oggi, a fronte di un costo di estrazione ancora relativamente basso, come quello che abbiamo visto per la Saudi Aramco, il prezzo necessario per il paese produttore è molto più alto. Questo prezzo si definisce prezzo di pareggio fiscale (fiscal breakeven price) che per l’Arabia Saudita era di 100$ nel 2015 e che ha forzato il governo saudita a metter mano ad una spending review che nemmeno Mario Monti avrebbe fatto facendolo scendere a circa 80$. Politica di risparmio che non è risultata sufficiente e per la prima volta quel paese ha dovuto ricorrere anche al credito internazionale emettendo obbligazioni sul mercato.

In realtà anche negli anni del barile a 100$ si vedevano diversi problemi: il prezzo era abbastanza alto da danneggiare le economie dei paesi importatori (specialmente quelli di tecnologie medio basse come quelli del sud europa), ma non abbastanza alto da far fiorire le economie di tutti produttori non-convenzionali. Il fatto veniva illustrato nel 2015 in un dettagliato rapporto di Steven Kopits nel quale, fra i molti dati interessanti, risalta l’aumento di un ordine di grandezza del tasso di crescita delle spese in capitale (capex) delle compagnie petrolifere a partire dal 2005 rispetto al decennio precedente quando l’aumento era intorno all1% annuo. Sempre in questo rapporto si mostrava come nel periodo 1998-2005 una spesa di 1500 miliardi di dollari aveva permesso ai produttori di aggiungere alla produzione globale 8.6 milioni di barili al giorno (+8,6 Mb/giorno) mentre nel periodo 2006- 2014 una spesa di 2500 miliardi di dollari era riuscita a contenere il declino della produzione di convenzionale ad 1 milione di barili al giorno (cioè -1 Mb/giorno). Anche la rivitalizzazione della produzione di petrolio convenzionale (cioè estratto da giacimenti terrestri con trivellazione verticale ecc) era costata moltissimo e si potrebbe dire che anche il convenzionale non è più quello di una volta. Ci potete aggiungere anche “Signora mia!” Ma il concetto non cambia. La scarsità guida la tecnologia e non viceversa e la tecnologia costa. L’argomento dell’efficienza per cui lo sviluppo tecnologico permette di attingere a sempre nuove risorse a costi decrescenti si manifesta in tutta la sua debolezza.

In effetti i picchisti (incluso il sottoscritto) un errore lo hanno fatto: hanno sottovalutato la capacità di sopravvivenza dello shale oil (Tight Oil). Molti fra gli osservatori indipendenti (indipendenti dalle compagnie petrolifere e dai loro interessi diretti) hanno sottolineato per anni il fatto che lo sfruttamento degli scisti sarebbe stato un fuoco di paglia a causa del suo basso EROEI (e alto costo di produzione), questo si è rivelato vero solo in parte. L’industria dello shale ha continuato ad alimentare il mercato (5 Milioni di barili al giorno) ed è in parte la causa dei prezzi moderati attuali. Innanzi tutto diciamo che i prezzi sono bassi rispetto al periodo 2011-2014 quando il barile oscillava intorno a 100$, ma non bassi in assoluto come mostra il grafico storico del prezzo del barile in dollari 2016 riportato qui sotto. Come si vede il prezzo attuale (nel frattempo attestatosi intorno ai 50$/b), che tutti i media indicano come bassissimo, è in realtà più del doppio di quello di fine secolo nonostante l’abbondanza di offerta. Si noti qui che non c’è contraddizione fra affermare che c’è abbondanza di offerta (che è la quantità di petrolio che arriva sul mercato per essere venduta) e la scarsità strutturale di cui parlano i picchisti e che si rivela nel declino dell’EROEI, quindi, in un prezzo più elevato, ma che non determina ancora tutti gli effetti deleteri che i picchisti denunciano da quasi due decenni come la “fine del petrolio a buon mercato”.

Attualmente la situazione è difficile da decifrare. Assumiamo perciò una posizione prudente. Lo shale oil americano (in genere indicato come Tight Oil) ha avuto successo. E’ indubbio che questo successo sia stato sottovalutato dai picchisti, lo ripeto. Ma la storia non è tutta qui e non è tutta svolta. La risorsa è stata sfruttata con una dinamica molto rapida, ma è risultata conveniente solo per alcuni operatori, quelli che si sono accaparrati le posizioni migliori (i cosiddetti sweet spots). Infatti la mortalità degli operatori dello shale è piuttosto elevata. I dati di produzione indicano la crescita impetuosa della produzione interna USA dal 2008 in poi.

La categoria dello shale ha effettivamente determinato una rivoluzione nel mercato petrolifero, non solo per il fatto di immettere una quantità consistente di materia prima sul mercato, ma anche perché ha modificato la modalità operativa delle compagnie impegnate in questo settore rispetto a quelle del convenzionale. Le seconde sono aziende che gestiscono grandi progetti che necessitano di tempi di realizzazione tanto lunghi che il rischio di cambiamento delle condizioni economiche è molto alto. Le aziende dello shale invece gestiscono spesso piccoli progetti che possono essere interrotti nei periodi in cui perdono economicità e ripresi quando la convenienza torna. Da questo punto di vista sono stati paragonati ad industrie manifatturiere con rapida risposta alle dinamiche di mercato rispetto alle pachidermiche aziende Big Oil & Gas che anche quando sono in perdita continuano a produrre. L’agilità delle aziende dello shale ha permesso di comprimere efficacemente i costi di estrazione, ma anche questo processo non può essere perseguito all’infinito. L’unico indicatore neutrale che abbiamo, anche in questo caso, è l’EROEI. Purtroppo gli studi di EROEI sono piuttosto complessi e spesso appesantiti dal pregiudizio di chi li compie. Gli studi di EROEI dello shale danno valori che variano molto fra 10-15 fino a 30. Il valore di 30, stimato da Adam Brant e collaboratori nel 2015, è in realtà un valore medio ricavato da uno studio bottom- up pozzo per pozzo nel bacino del Bakken in Nord Dakota. E’ chiaro che se tale valore fosse confermato e le riserve fossero abbondanti per il petrolio si aprirebbe una nuova primavera che potrebbe essere interrotta solo per legge. Ma attenzione, l’esperienza mostra che, ad un prezzo persistentemente intorno ai 50$ come nell’ultimo anno, la produzione di shale va in declino (si veda la figura sopra) se questo sia un declino permanente o temporaneo lo sapremo solo a posteriori e nessuno ha la verità in tasca. Si confermano inoltre le molte perplessità sulla praticabilità dello shale, basato sulla fratturazione idraulica, in territori diversi dagli Stati Uniti sia per motivi di natura geologica che sociale e politica. Le stime sulle risorsa globale di shale oil sono mirabolanti, ma nessuno può dire oggi quante di queste risorse potranno diventare riserve (cioè materia prima estraibile economicamente) e quante saranno effettivamente portate sul mercato e con quale velocità. Le stime hanno effetti interessanti dal punto di vista finanziario e sono quindi spesso molto ottimistiche. A dispetto delle regole imposte per le aziende quotate in borsa, quello che spesso conta più che gli asset accertati, riserve certe, probabili o possibili, sono quelli potenziali sui quali le notizie vengono date in modo informale. Come si dice fra gli investitori: “per fare soldi con il petrolio c’è un’alternativa a trivellare la terra, trivellare il portafoglio dei risparmiatori”.

Insomma, si, sullo shale si sono fatti degli errori di valutazione da parte dei picchisti, ma si tratta di errori inevitabili di chi cerca di guardare un po’ più in la del proprio naso e non crede che il futuro sia la mera continuazione del passato. Errori che non modificano il messaggio di fondo che non era né è mai stato: “attenzione finisce il petrolio”, ma:

Attenzione. La civiltà industriale dipende da un flusso continuo, abbondante e a buon mercato di energia sotto forma di combustibili liquidi e questo flusso si sta assottigliando, gradualmente sostituito da un flusso a costi maggiori. Per rispondere a questo problema si deve agire in largo anticipo rispetto al fenomeno, inevitabile, del picco, che segnerà il momento a partire dal quale il flusso totale inizierà a declinare, perché la società ha investito molto in assett che dipendono dall’esistenza di questo flusso e dalla sua crescita e uscire da questa immensa infrastruttura petrolio- dipendente non sarà né facile né indolore.

Non è chiaro quale messaggio più “economicista” dovrebbero lanciare i picchisti per spiegare l’evoluzione preoccupante del panorama energico- economico.

E’ quello energetico l’unico problema? No. Ci sono picchisti, le cui opinioni io non ho mai condiviso, che sostengono che il problema energetico è più importante di quello ambientale (cambiamento climatico e collasso della biosfera). E’ la tipica sindrome: “il MIO problema è più importante del tuo”. Questo è il secondo errore di alcuni (solo alcuni) picchisti. Personalmente ho sempre posto l’accento sulle questioni ambientali quotidianamente in tutte le occasioni come su quelle energetiche. Inoltre, abbastanza isolato, ho sempre sottolineato la causa primaria di tutti i problemi che è l’avvenuta esplosione demografica che, tanto per cambiare, è un effetto collaterale della scoperta dell’uso dei combustibili fossili che ha moltiplicato per un fattore dieci la capacità di carico del pianeta. I problemi sono gravi e connessi. Ognuno ha i suoi tempi specifici che vanno conosciuti ed indagati. Affrontarli contemporaneamente è difficile, ma è l’unica cosa che si deve fare in questi decenni. A me sembra che nella ricerca delle risposte a questi problemi sia molto sbagliato farsi irrigidire dalle ideologie del secolo scorso che, inevitabilmente, sono incapaci di cogliere l’unicità di questo momento storico e metter mano alle opportune azioni politiche. In un prossimo post cercherò di affrontare il tema per chiarire come la vedo io. Un picchista fra tanti.

2 risposte a “C’è un fallimento intellettuale e strategico dei picchisti?

  1. Complimenti vivissimi per la lucidita’ e la chiarezza dell”esposizione.
    Condivido parola per parola:
    ” ho sempre posto l’accento sulle questioni ambientali in tutte le occasioni come su quelle energetiche. Inoltre, abbastanza isolato, ho sempre sottolineato la causa primaria di tutti i problemi che è l’esplosione demografica che, tanto per cambiare, è un effetto collaterale della scoperta dell’uso dei combustibili fossili che ha moltiplicato per un fattore dieci la capacità di carico del pianeta.

  2. i fossili hanno moltiplicato per 20 gli umani ad oggi, domani forse per 30. Il che ha degradato l’ambiente e innescato il GW. Anche a me sembra che non ci sia altra via di scampo dai fossili che quella indicata da MG. Prima o poi le condizioni di vita peggioreranno talmente che i governi dovranno metterci mano, ma fino allora non faranno nulla. Sono tutti lì alla finestra a guardare e in Tv a sparare cavolate.

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