Palme al posto dei derrick?

Mirco Rossi, comitato scientifico ASPO Italia

Sui media veneziani sono apparse nei giorni scorsi notizie relative alle modifiche impiantistiche e produttive che Eni intende introdurre nella propria raffineria di Porto Marghera.

La maggiore enfasi è riservata alla questione occupazionale in quanto più della metà dei 300 addetti viene riconfermata per il funzionamento del nuovo impianto e l’Eni si è impegnata a trovare soluzioni concordate, non troppo penalizzanti, per i rimanenti. Non si tratta certo di una questione marginale in una fase che, anche nell’area di Porto Marghera e del Veneto, vede la crescente riduzione dei posti di lavoro.

Noto però che sono rimaste sotto silenzio questioni che si possono ipotizzare siano all’origine della crisi della raffineria e quelle energetiche nel loro insieme, forse ancor più importanti.

Una raffineria trova la sua principale ragion d’essere perché ricava dal greggio, una materia di difficile utilizzo presente nelle viscere della terra, numerose sostanze utili e a volte indispensabili a innumerevoli processi produttivi o energetici, in particolare i carburanti. Ciò avviene con una “filiera” che da quasi un secolo crea molto valore sia dal punto di vista economico che da quello energetico.

Per cercare una spiegazione sul perché da qualche tempo questo meccanismo si sia inceppato (nel mondo numerose raffinerie importanti hanno chiuso, come la Petroplus, la più grande d’Europa, e molte altre sono in seria difficoltà) occorre ricordare che i giacimenti di petrolio convenzionale (quello che semplicisticamente si può definire “buono e facile”) sono in declino ormai da 4-5 anni, a tassi che talvolta superano anche il 5% all’anno.

Tuttavia l’insieme dei prodotti petroliferi disponibili (definiti “all liquids”) non sta declinando e presenta ancora un leggero incremento anno per anno. Ciò è dovuto alla capacità intervenuta di estrarre altri tipi di greggio, definito “non convenzionale” da sabbie, da rocce, da gas. Questi nuovi prodotti, molti simili al petrolio, suppliscono alla riduzione dell’estrazione di greggio “convenzionale” e, vengono statisticamente considerati “petrolio”.

Va notato anzitutto che i sistemi per l’estrazione di questi greggi “non convenzionali” sono molto più complicati e costosi (dal punto di vista economico ma soprattutto energetico) di quelli tradizionali. Come conseguenza, anche se il profitto economico resta consistente tende a ridursi, mentre il guadagno tra energia spesa ed energia che se ne ricava risulta molto basso, a volte anche 15-20 volte inferiore a quello del greggio “convenzionale”. Fatto questo che rallenta o impedisce del tutto la crescita reale della “ricchezza” di una società. Che non si misura con la quantità di moneta circolante ma con la quantità di beni e servizi fruibili.

Per ciò che riguarda specificamente le raffinerie, molti di questi greggi “non convenzionali” non sono in grado di produrre diesel, altri lo possono fare solo a costi molto più elevati di quelli del diesel estratto dal greggio “convenzionale”.

Anche in quest’ultimo caso, però, non si può variare a piacimento il rapporto tra i diversi prodotti della raffinazione, benzine e distillati da una parte e diesel dall’altra. Salvo gli Stati Uniti, in tutto il mondo sta diminuendo il consumo di benzina e aumentando quello del diesel. Così le raffinerie devono tentare di equilibrare la vendita della benzina che ha un calo di domanda, con quella del diesel la cui domanda aumenta. Dovendo fare i conti con dei limiti fisici in fase di raffinazione e disponendo di una materia prima (greggi “non convenzionali”) da cui è più difficile e oneroso ricavare il diesel. Il prezzo alla pompa ne risente e non casualmente nel nostro paese di recente ci sono state pesanti proteste da parte di camionisti, agricoltori e pescatori a causa dei forti aumenti.

Ecco quindi che Eni cerca e trova un diversa materia prima per produrre diesel: l’olio di palma.

Mentre in Europa, e non solo, si assiste a una riflessione ben più attenta che in passato sull’opportunità di sfruttare i terreni agricoli per produrre biocombustibili, Eni decide di importare dalla Malesia e dall’Indonesia, cioè dall’altra parte del pianeta, un olio vegetale, consolidando e ampliando processi di monocultura su aree regionali con pesantissime conseguenze negative sull’ecosistema, sulla foresta e sul sistema agricolo locale.

La riflessione sulla produzione di energia di origine vegetale trae origine dal fatto che molti studi, sottolineando per primo il bisogno primario di mantenere la destinazione dei terreni a scopi alimentari, negano esistano particolari benefici ambientali da un simile ciclo. Lavorazione del terreno, semina, concimazione, irrigazione, raccolta del prodotto, trasporto e lavorazione consumano energia – di origine fossile! – in quantità molto simile, se non maggiore, a quella che alla fine mette a disposizione il biocombustibile prodotto.

Non ci si può limitare a considerare “verde” o “biocompatibile” un prodotto, se non si prende in considerazione il suo intero ciclo. Nel caso di buona parte dei biocombustibili il bilancio tende a essere energeticamente negativo. Resta positivo del punto di vista economico perché i costi vengono spesso abbattuti con incentivi e il prezzo di vendita non viene caricato con la stessa quantità di imposte che grava sui carburanti tradizionali.

Distrarre dalla produzione di cibo territori fertili per sfruttarli energeticamente appare, in particolare in una zona del mondo che non ha cibo in abbondanza, un non senso, una contraddizione, che solo il desiderio di continuare a perseguire obiettivi di crescita e di profitto a ogni costo può risolvere.

Non mi risulta siano disponibili studi in grado di calcolare il bilancio energetico-ambientale di un ciclo che, a partire da estesissime monoculture intensive di una specie di palma vede poi il trasporto dell’olio così prodotto per oltre la metà della circonferenza terrestre e la sua lavorazione per produrre diesel. Certamente i conti economici hanno ricevuto molta maggiore attenzione. Ritengo però che senza una verifica scientificamente valida dell’intero ciclo non si possa affermare che esistono benefici ambientali, né tanto meno che Porto Marghera si possa fregiare di una medaglia “verde”.

Mestre, 26 settembre 2012

10 risposte a “Palme al posto dei derrick?

  1. io sarei molto più tranquillo: quello dei biocarburanti è uno “scam” tecnologico già scoperto, ne più ne meno dell’idrogeno per autotrazione. Ve ne ricordate? http://www.alternativasostenibile.it/articolo/il-distretto-dell-idrogeno-a-porto-marghera-0807.html: anche l’idrogeno doveva essere “un grandissimo rilancio di Porto Marghera”.
    Semplicemente Scaroni e i suoi hanno capito che con qualche buzzword indovinata si possono chiudere le fabbriche tra gli applausi generali

  2. Dopo aver pappato aiuti di stato sotto forma di incentivi l’eroei seppelirà tutto .

    • Mi pare un’ottima sintesi di quel che accadrà. Per altro ENI non è Fiat che deve più o meno chiedere aiuti, ENI è una parte dello stato italiano (che scrivo minuscolo per farne meglio comprendere le conseguenze). Lo sappiamo da trent’anni.

  3. E se si facessero volare un buon numero di punteruolo rosso vicino alle palme? L’insetto attacca la specie di palma “Phoenix canariensis”, qui da noi sono state letteralmente decimate. it.wikipedia.org/wiki/Rhynchophorus_ferrugineus

  4. ma e’ stata inaugurata la centrale a idrogeno nel 2010 a Marghera?

    • La “centralina” (12 + 3 MW) a idrogeno è funzionante da tempo. Non sono in grado di dire se funzioni in continuo, perche dipende completamente dalla disponibilità di irdogeno di scarto del vicino petrolchimico. Impianto da tempo privo di reali prospettive e periodicamente a rischio di chiusura definitiva. Non sono disponibili notizie sull’ipotizzata autonoma produzione di idrogeno da gassificazione del carbone, apparentemente ben lontana dalla realizzazione.

      • Mi sembra come il progetto di far volare i jet americani delle portaerei a carburante ottenuto da acqua di mare. Fattibile… se sotto la portaerei generi surplus di idrogeno con il tuo reattore nucleare. Voglio dire, dammi un’altra centrale a carbone e ti apro subito a fianco trenta piccole centraline che co-producono quello che ti pare: idrogeno, ciabatte, pancetta. Dammi una centrale nucleare e ti produco una barra di oro sintetico all’anno. Ma a che costo (econo-energetico)?

  5. Forse l’autore non è a conoscenza del nuovo detto del settore finanziario mondiale: “Oil is the next Greece” (inteso come “Oil industry”). Nel post ci sono varie imprecisioni ed inesattezze. Ad esempio si fa cenno ad un non precisato “all liquids” (ma intendendo più correttamente OIL SUPPLY, ancora una volta si fa confusione con “other liquids”, che contiene condensati e gas che non sono il greggio).
    Per quel che riguarda l’OIL SUPPLY, diciamo tutto il petrolio mondiale comprese le schifezze associate per nascondere il picco produttivo, ANCHE quello è dietro le nostre spalle. Finiamola di dire che stalla o addirittura progredisce. E’ falso. Il “world total oil supply” ha avuto un evidente picco ad aprile 2012 (e se lo ammette l’OPEC…). Siamo, oggi, ad un semestre dall’ultimo picco che era possibile, poco sopra i 90 Mb/g, la gittata produttiva giornaliera mondiale sta calando di almeno 0,20 Mb/d mensili. L’ultimo dato è ritornato “positivo” dopo mesi di caduta, fonti OPEC ufficiali dichiarano che il mondo ha usufruito di una produzione media giornaliera di 89,8 milioni di barili al giorno nel mese di settembre. Secondo le loro stesse previsioni di pochi anni fa, oggi dovremmo averne almeno 95 milioni (altri ne prospettavano 100!); quindi il mondo oggi avrebbe una penuria cronica già piuttosto seria. La disponibilità pro-capite mondiale invece cala da anni, per l’Europa e per l’Italia, all’incirca dal 2001 siamo in una spirale negativa irreversibile. Peccato che nemmeno su un blog ASPO si abbia diritto a vedere il dato più interessante, è il petrolio ed i derivati che non puo piu comprare un singolo che è qui ed ora che è un dato interessante, piu di quanto invece produca in totale uno stato a 8000 km da qui, in considerazione che è più significativo quel dato se si analizza il quadro italiano o europeo. In ogni caso tutti gli indicatori sono in ribasso, il tono in cui viene presentata la situazione globale petrolifera non è sufficientemente allarmistico.

    • Non intendevo scrivere un “paper” ma semplicemente offrire qualche serio elemento di riflessione su una vicenda che i media hanno sbandierato per giorni come “nuova e importante prospettiva”. Il target non era quindi “esperti” ma “persone sensibili e interessate”. Le approssimazioni ricadono in tale contesto. Anche se, per esempio, la stesa EIA talvolta usa titolare grafici relativi a OTHER LIQUIDS ENERGY, NGL, REFINERY GAIN, OIL AND CONDENSATE, come “WORD OIL ALL LIQUIDS SUPPLIES”. Per quanto riguarda il picco, un recentissimo (sett.2012) grafico EIA mostra in effetti in leggero declino negli ultimi mesi sia della domanda che dell’offerta, dopo un paio d’anni di lieve incremento. Tuttavia lo stesso grafico mostra a breve una leggera ripresa dell’incremento di entrambe le linee.
      Un andamento a “denti di sega” quindi, all’interno di un range piuttosto contenuto, che non permette di interpretare un dato relativo a un breve periodo come picco definitivo. Ma come ho scritto altrove non è questo il punto. Un anno prima o cinque anni dopo non cambia nulla nel concreto. Viviamo in un’epoca in cui stanno velocemente cambiando presupposti che si ritevenavo e si titengono dai più assolutamente indiscutibili. E di ciò subiremo le conseguenze. Ma più che allarmismo ritengo sia opportuno fare informazione. Già così la maggioranza delle persone a cui perviene percepisce il messaggio come catastrofico e trova perciò motivo per ignorarlo o ritenerlo irricevibile.

  6. ” Tuttavia lo stesso grafico mostra a breve una leggera ripresa dell’incremento di entrambe le linee”
    Non so di quale grafico si parli, dell’attualizzazione delle previsioni alla luce della produzione calante? I grafici di previsione della domanda, anche se li dirige la EIA (ma pure Greenpeace) hanno dimostrato.la loro fantasia in varie occasioni, per non dire sempre. Vent’anni fa si prevedeva producessimo 20% in più, un anno fa si prevedeva 1%, ora dicono “il mese prossimo la domanda è +0,2 e noi faremo almeno +0,1%”(poi fanno un ennesimo -0,1% e la domanda reale è -0,2% ed il ciclo ricomincia). Tra “allarmismo” e “non dire niente”, il passo è lungo e di mezzo c’è l’informazione che non scuote.

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