Il bambino che cambiò l’Italia

Due fatti di cronaca negli ultimi due giorni.

Una lezione importante rimasta sconosciuta.

Alcune storie sono così dolorose che spazzano via persino la stupidità.

Di Dario Faccini

LA SPERANZA IN FONDO AD UN POZZO

La tragedia che si è conclusa sabato in Spagna è la ripetizione quasi identica di una dolorosa pagina di storia italiana: un bambino cade in un pozzo che avrebbe dovuto essere ben sigillato, parte una corsa contro il tempo per estrarlo ancora vivo, l’evento diventa mediatico, i primi sforzi sono tutti inutili e allora si ricorre alla soluzione definitiva, ma più lunga, perforare un pozzo parallelo.

Il padre del bambino Julen Rosello, 2 anni, caduto in un pozzo durante una vacanza.

 

Domenica è giunta un’altra notizia: la morte di Giuseppe Zamberletti, classe 1933, 7 volte parlamentare , Commissario Straordinario nelle principali emergenze pubbliche italiane, Ministro, Cavaliere di Gran Croce e da tutti considerato il padre della Protezione Civile italiana.

Giuseppe Zamberletti, classe 1933, padre della Protezione Civile

 

Questi due fatti di cronaca, lontani nello spazio, ma vicini nel tempo, sono collegati in una storia conosciuta solo dagli addetti ai lavori. Una storia che contiene una lezione molto attuale.

Per raccontarla dobbiamo parlare di un incidente simile a quello avvenuto in Spagna, un punto di svolta nella storia italiana: è l’incidente di Vermicino avvenuto alle porte di Roma nel 1981, quando in una calda giornata di giugno il piccolo Alfredo Rampi di soli 6 anni cade in un pozzo artesiano. L’incidente è entrato nell’immaginario collettivo italiano per la prima diretta televisiva non stop nazionale a reti unificate, che è iniziata quasi per caso: l’allora capo dei Vigili del Fuoco comunica ai giornalisti che la vicenda si risolverà da lì a poco, e  questo induce i responsabili della Rai a non interrompere il collegamento televisivo come vuole il senso del pudore dell’epoca, convinti di documentare una soluzione positiva dell’evento.

 

L’INIZIO PEGGIO DELLA FINE, 5 ANNI PRIMA

La vicenda di Alfredo Rampi è però la fine di questa storia. L’inizio è avvenuto con tragedie di proporzioni ben maggiori.

Andiamo per ordine.

Cinque anni prima di Vermicino, nel 1976 in Friuli, tra maggio e settembre una sequenza di forti scosse di terremoto (sino a 6.5 della scala Ritcher) polverizza interi paesi a nord di Udine. Solo in Italia si conteranno quasi mille morti.

La tragedia si ripete in misura addirittura peggiore nel novembre 1980 in Irpinia (tra Campania e Basilicata) con una scossa di magnitudo 6.9 che mieterà quasi tremila vittime, 8.800 feriti e 280.000 sfollati.

Cos’hanno in comune queste due vicende?

Entrambe mettono in luce l’assoluta mancanza di prevenzione e l’improvvisazione nella gestione dei soccorsi. La macchina nazionale dei soccorsi in simili casi è organizzata da una tribolata legge approvata nel 1970 che prevede l’organizzazione dei volontari locali nei casi di emergenza e, dopo le catastrofi, la nomina di un commissario da parte del governo che coordini Vigili del Fuoco e corpi di Polizia. Troppo poco. Quello che è chiaro che in un paese fragile in cui si susseguono emergenze ambientali,  serve tempismo, chiarezza nella catena di comando, il coordinamento di competenze molto diverse e un corpo di volontari stabili, presente su tutto il territorio nazionale, dotati di mezzi adeguati. In una parola: serve la Protezione Civile. Ma nell’Italia quegli anni un corpo permanente di volontari viene visto come un rischio, perché potrebbe essere usato anche militarmente per fini politici. La politica quindi si mette di traverso e sbarra la strada.

E il momento sembra perduto.

D’altronde cos’altro può mai accadere per smuovere gli animi se non ci sono riusciti due terremoti devastanti e quasi 4000 vittime?

 

UNA SOLA LACRIMA IN PIU’

Ma qui la storia cambia corso.

Perché arriva un bambino in fondo ad un pozzo e una diretta televisiva nazionale che nessuno può interrompere. Tranquilli – dicono – è garantita un storia a lieto fine.

Solo che il lieto fine non ci sarà.

Alfredo Rampi

 

Al suo posto ci sono 72 ore di agonia per errori ed improvvisazioni nella macchina dei soccorsi: nelle prime ore della scomparsa del bambino il coordinamento delle operazioni viene assunto dai Vigili del Fuoco che arrivano quando è buio, senza torce e calano una tavoletta di legno nel tentativo di farvi aggrappare Alfredo; la tavoletta si blocca ostruendo l’ingresso del pozzo, precludendo la possibilità di inviare al bambino cibo e acqua; viene chiamata la  squadra locale del Soccorso Alpino e Speleologico ma nessuno ha la corporatura abbastanza minuta; i Vigili del Fuoco congedano la squadra del Soccorso Alpino e optano per la trivellazione di un pozzo verticale laterale, viene diramato un comunicato per cercare la trivella ma nessuno pensa di ascoltare una geologa che avverte della presenza di uno strato di roccia dura chiamato “cappellaccio”; la trivella viene messa in funzione ma trova quasi subito uno strato di tufo e peperino compatto che fa surriscaldare la punta non adatta a trivellare la roccia; allora si utilizza acqua e olio da trivellazione per raffreddarla, ma si procede a rilento; quando finalmente dal pozzo laterale i Vigili del Fuoco entrano nel pozzo artesiano il bambino non c’è, hanno perforato troppo vicino e i lubrificanti usati per la trivellazione sono penetrati nel pozzo, insieme alle vibrazioni della trivella hanno fatto scivolare Alfredo 30 metri più giù.

Il resto è la storia di misure disperate, alla ricerca affannosa di uomini con corporatura abbastanza minuta da calare a testa in giù, sino a diventare isteria collettiva e a prender in considerazione l’idea folle di rischiare la vita di un sedicenne (fu bloccato del magistrato quando era già imbracato e pronto a scendere). Troppo tardi.

Ci arriveranno vicini, arriveranno a toccarlo persino, inutilmente.

Il recupero del corpo, avvenuto 28 giorni dopo grazie a tre squadre di minatori.

 

La madre di Alfredo ricorda anni dopo quei momenti spiegando la svolta politica:

Dopo tre giorni di agonia non ci fu più niente da fare, ci dissero che era morto. Cosa feci quando seppi che non c’era più speranza? Feci una cosa automatica, immediata: mi dissi “Non posso accettarlo”, me lo ripetei a voce alta più volte. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini era arrivato sul luogo senza avvertire le autorità presenti e mi dissero che era ancora lì vicino. Decisi di andare a parlare con lui, perché avevo visto troppe cose assurde in quei giorni. Volevo raccontargli tutto: da quando mio figlio si era perso fino al momento della sua morte. E così feci: Lui mi rispose: “Signora sono sconcertato, non so che dirle, non ho parole, possibile che ci sia stata tutta questa confusione? Possibile che niente abbia funzionato?” Dopo alcuni mesi ricevetti una sua telefonata e mi disse che per me aveva creato un Ministero, quello della Protezione Civile.

Due settimane dopo, il 28 Giugno 1981, nasce il primo governo Spadolini. Proprio Giuseppe Zamberletti, già Commissario per l’Irpinia, viene nominato Alto Commissario per la Protezione Civile con il rango di Ministro senza portafoglio e dichiara:

E’ inutile nascondersi che se non ci fosse stata la tragedia di Alfredino Rampi durante la crisi di governo, nessuno avrebbe fatto niente per la Protezione civile.

Ci vorranno altri 10 anni per mettere in piedi la Protezione Civile come la conosciamo oggi (legge n.225 del 24 febbraio 1992), ma ormai è fatta. La valanga ora è inarrestabile.

Quando nel 2016 chiederanno a Zamberletti perché in Italia c’è bisogno di una struttura permanente per la Protezione Civile risponderà:

Perché l’Italia è un paese particolare, ha la mappa di rischio maggiore in Europa. L’area soggetta a terremoti è la più estesa, abbiamo i vulcani, abbiamo un rischio idrogeologico diffuso. E’ un paese che ha insomma bisogno di un’organizzazione stabile per affrontare le emergenze ambientali che sono e saranno continue. Non è un caso che anche l’Unione Europea abbia preso a modello la nostra Protezione civile per arrivare a organizzarne una sua.

 

UNA LEZIONE DI LACRIME E SANGUE

La nascita della Protezione Civile è quindi dovuta ad un evento fortuito. Furono necessarie lacrime e sangue per trovare il coraggio, la volontà di crearla. E furono sufficienti a stento.

A questo punto è naturale porsi una domanda:

Perché la morte di un solo bambino è riuscita dove hanno fallito due terremoti devastanti?

Può sembrare una domanda senza cuore, ma dobbiamo considerare quanto possa essere attuale la risposta, visto che oggi abbiamo un problema molto simile a quello di 38 anni fa: abbiamo ancora necessità di proteggere il nostro fragile territorio, questa volta da danni climatici ed ambientali purtroppo ben più gravi, e abbiamo ancora una classe politica che è incapace di decidere. Come allora, anche oggi il problema è chiaro, così come lo sono le sue soluzioni e il costo in sofferenza da pagare se non le attueremo.

Può essere utile allora analizzare questo evento razionalmente e provare a trarne tutte le lezioni possibili.

 

I LIMITI DELL’EMPATIA

Innanzitutto è palese l’eccezionalità mediatica della vicenda. Non è mai accaduto prima che la morte in diretta di un bambino entrasse nelle case di 21 milioni di italiani, la psiche collettiva non aveva ancora sviluppato anticorpi per difendersi da impatti emotivi di questa portata. A questo vanno aggiunti altri tre fattori:

  • Il primo è la durata, che ha coperto quasi tre giorni, di cui 18 ore in diretta non stop. Il pubblico ha avuto il tempo di far propria la storia e di immedesimarsi nei suoi protagonisti.
  • Il secondo è la singolarità della vicenda, che certamente ha innescato una curiosità da apprendimento vicario.  E’ ciò che capita quando guardiamo film catastrofici: abbiamo bisogno di capirne le dinamiche (chi ce la farà, chi non ce la farà?) e facciamo ipotesi sulle risposte che daremmo noi se messi nelle stesse condizioni, perché sono situazioni su cui non abbiamo esperienza e siamo naturalmente programmati per imparare a gestire i pericoli ipotetici.
  • Il terzo è l’interesse suscitato dall’assistere ad un evento in svolgimento, di cui non si conosce ancora l’esito e con un rischio reale che possa essere infausto. La “posta in gioco” è sempre importante per suscitare interesse.

L’aspetto mediatico è stato fondamentale per attivare processi empatici che hanno portato al necessario coinvolgimento emotivo. Vedere il volto e sentire le voci dei protagonisti, come la madre del bambino, ha permesso di leggerne lo stato d’animo, di immedesimarsi in lei, di condividerne le pene. Ecco una differenza fondamentale. In un evento catastrofico collettivo come un terremoto, l’empatia si attiva solo in parte perché è una caratteristica che si è evoluta mediante rapporti personali, con relazioni uno-ad-uno, e non è efficace quando sono coinvolti un gran numero di nostri simili che non abbiamo mai visto. Leggere su un giornale che ci sono stati 1000, 10.000 o 100.000 morti non aggiunge purtroppo niente a livello emotivo, e non perché siamo malvagi, ma perché normalmente non solo non è utile, ma è dannoso preoccuparsi di continuo per ciò che capita lontano da noi. Di contro la vicenda di Vermicino, ha invece presentato al pubblico pochi protagonisti, ne ha narrato le storie, ne ha costruito un ritratto vivido, individuale e, soprattutto, vicino.

Prima lezione:  l’empatia può essere un alleato potente per un coinvolgimento emotivo, ma richiede che vengano ‘vissute’ vicende personali.

Sull’empatia come alleata di una trasformazione sociale, si è scritto molto sia a favore, sia contro negli ultimi anni. Una cosa è certa: nelle sfide che abbiamo di fronte non potremo farne a meno.

 

LA COMPLESSITA’ E’ NEMICA

Un altro aspetto è il rapporto di causa-effetto: chiaro e sotto gli occhi di tutti.

Tutti i protagonisti della vicenda sono concordi: Alfredo Rampi poteva essere salvato. E’ morto a causa di una cattiva gestione della macchina dei soccorsi. La televisione ha immortalato ogni fase di questa sconfitta, i giornali hanno amplificato ogni dettaglio.

La stessa chiarezza semplicemente non c’è per un terremoto con migliaia di morti: la vastità delle operazioni nelle aree colpite rende difficile valutare lo svolgersi delle operazioni di soccorso e queste comunque possono fare la differenza solo per alcuni, non certo per chi è già deceduto.

Un esempio ci viene dalla testimonianza televisiva tagliente rilasciata dal Presidente della Pertini all’indomani del terremoto dell’Irpinia. Una denuncia accorata e senza sconti sulle responsabilità dei soccorsi e sulle mancanze legislative. Comunque una testimonianza articolata, che individua varie colpe, quasi un problema diffuso. Troppo complicato risolverlo in ogni suo aspetto. Infatti all’epoca, nei fatti, non ottenne che pochi risultati.

 

UN ATTIMO FUGGENTE

Dal resoconto balza agli occhi la coincidenza temporale tra l’evento di Vermicino e la crisi di governo. In un certo senso è, tristemente, il momento giusto. Il terremoto dell’Irpinia è ancora fresco e c’è chi, come Giuseppe Zamberletti, si batte per modernizzare la macchina dei soccorsi.

In quei giorni del 1981, è passato solo un mese dall’attentato al Papa, pochi giorni dalle rilevazioni sulla loggia della P2 e dalla caduta del governo Forlani. Quando la RAI prova ad interrompere la diretta con Vermicino per trasmettere una tribuna politica, la sede viene sommersa da telefonate di spettatori fuori di sé che costringono la rete a tornare sui suoi passi.

Il segnale raggiunge forte e chiaro la politica: per gli elettori la vicenda è importante e potrebbero non gradire se finisse in secondo piano nell’agenda politica del governo in formazione.

Il momento è perfetto. L’emozione per la vicenda non si è ancora raffreddata, c’è la possibilità di intervenire nella creazione dell’esecutivo. E Pertini non si lascia sfuggire l’occasione e riesce a creare un ministero per la protezione civile che durerà quasi vent’anni, sino al 2000. In questo sta il suo grande merito.

Sfruttare subito un momento favorevole, senza rimandare. Questa sembra la lezione. In realtà dobbiamo leggerla in un altro modo. La chiave è che deve essere già disponibile una soluzione concreta,  che possa essere intrapresa subito, senza aspettare.

E non deve neppure essere un’azione particolarmente importante o completamente risolutiva. Basta che sia concreta, nella direzione giusta e che faccia agire, impegnando risorse e tempo.

La nomina di Zamberletti come primo Alto Commissario per la Protezione Civile avviene si con il rango di Ministro, ma senza portafoglio. Oggi potremmo tranquillamente interpretare la nomina come un’operazione di facciata, pensata per prendere tempo in attesa che si calmino gli animi e si torni ai “problemi veri del paese”. Invece no, quello è proprio l’inizio della soluzione, perché inizia a strutturarsi un dipartimento, una burocrazia, un portatore di interesse per quella causa.

In pratica è la strategia di puntare bassi, ottenere un impegno da una controparte per poi alzare la posta.

In psicologia c’è un effetto che viene riassunto con una frase: cambiare il comportamento per far cambiare opinione. Siamo portati a pensare che dovrebbe capitare solo il contrario, che l’azione sia una conseguenza del pensiero, non viceversa. Nella realtà l’immagine che abbiamo di noi stessi viene costruita giorno per giorno mentre interpretiamo le azioni che compiamo in un quadro più ampio di valori e convinzioni che ci appartengono. Come sempre questo effetto è così vero che viene già sfruttato come tecnica di marketing (es. la tecnica della palla bassa).

Se vogliamo allora riassumere tutto questo in una frase, potrebbe essere: agire subito, agire nella giusta direzione e senza aspettare la soluzione perfetta.

La posta si può alzare anche dopo, l’importante è iniziare a cambiare la percezione che si ha di quel problema.

Vale la pena osservare che intraprendere un’azione immediata è anche un modo per superare alcuni meccanismi di difesa psicologica che derivano dal senso di impotenza. Questi potrebbero poi creare una narrativa diversa e contraria, sia a livello personale che collettivo, formando barriere che ostacoleranno tutti i tentativi futuri di risoluzione. Ve ne abbiamo già parlato.

 

 

LA LEZIONE PIU’ IMPORTANTE

Siamo portati a pensare che sia la dimensione di un problema, con i rischi e i pericoli ad esso connessi, a spingerci ad agire verso la sua soluzione.

Questa storia mostra che non è quasi mai vero. La verità è che, in condizioni normali, se c’è una sola scappatoia di comodo, sarà quella la strada che la collettività vorrà intraprendere. E’ l’effetto riccio.

Ma quando vengono attivate correttamente alcune nostre programmazioni evolutive innate, la soluzione di comodo non sarà più la prima opzione che vorremo scegliere, potrebbe essere invece quella razionale, quella che il problema lo risolve davvero.

In questa vicenda abbiamo viste due di queste programmazioni:

  • l’attivazione della nostra naturale empatia, che però ha bisogno di alcune specifiche condizioni
  • la preferenza per messaggi semplici, con un chiaro rapporto di causa-effetto

Inoltre abbiamo analizzato l’importanza di intraprendere subito una soluzione, anche parziale, purché sia nella giusta direzione e cambi il modo con cui si percepisce il problema.

La Protezione Civile è davvero un buon esempio.

E’ un fiore all’occhiello a livello di organizzazione in un Paese che di organizzazione ne ha un disperato bisogno. Un presidio di cultura della previsione e prevenzione, in uno Stato in cui tutto è emergenza e non esiste la pianificazione a lungo termine.

Un modello che ci siamo costruiti da soli, con lacrime e sangue, anche dei nostri figli. Grazie a persone che ci hanno creduto, come Giuseppe Zamberletti.

Un modello che dobbiamo imparare a ricreare per risolvere problemi ancora più grandi.

Prima che sia troppo tardi.

 

3 risposte a “Il bambino che cambiò l’Italia

  1. Molto interessante, un flashback della nostra storia che abbiamo nel cuore. Buona serata

  2. mi chiedo se sarebbe esistita o sarebbe possibile avere una protezione civile senza i FF.

  3. In realtà non è detto che l'”empatia” da diretta tv sia una buona cosa.
    Un fenomeno cui si assiste spesso è quello della narrazione di storie, di importanza relativa, che assumono un ruolo più grande del dovuto proprio perchè raccontate in un certo modo (spesso allarmistico), perchè giungono alla nostra attenzione mentre altre, più gravi e rilevanti, no.
    Come se fosse importante solo ciò che passa in tv o sui media.
    Daniel Kahneman ad esempio parla di “cascata di disponibilità”, ma non in termini positivi, bensì per sottolineare la percezione distorta della realtà, e di come questa porti a decisioni errate.

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